Dopo aver parlato delle fotocamere reflex, Come fare a… vi propone un altro articolo che riguarda la fotografia, in questo caso vista da un’altra prospettiva, l’acqua. L’acqua è più densa dell’aria, è più pesante dell’aria, la matita nel bicchiere pieno d’acqua appare spezzata. Ma come influisce l’acqua sulla fotografia subacquea? Lo scopriremo in questo primo articolo sulla fotografia subacquea.
La fotografia subacquea
L’acqua, oltre che essere uno degli elementi fondamentali alla vita, è un fluido con caratteristiche sensibilmente diverse dal fluido in cui ci troviamo normalmente immersi: l’aria. La sua densità, pari a circa 800 volte quella dell’aria, unita alla presenza di sali disciolti e elementi sospesi, come minuscoli granelli di sabbia, micro organismi e altro, influisce in modo sensibile sul comportamento della luce, elemento base della fotografia.
Queste influenze costringono il fotografo subacqueo a comportamenti molto differenti da quelli che si tengono fotografando sulla terraferma. Una conoscenza di base dei principi fisici che regolano la trasmissione della luce aiuta a comprendere sia i fenomeni ottici che le “contromisure” da adottare fotografando. Se la parola “fisica”, intesa come materia di studio, spaventa qualcuno, in realtà ciò che stiamo per vedere non è più complesso di quanto si può normalmente studiare alle scuole medie. Più che alla precisione scientifica si presterà attenzione alla comprensibilità.
Il colore sott’acqua
La luce del sole, che normalmente consideriamo “luce bianca” è l’insieme di una ampia gamma di tonalità. Queste, parlando dei soli colori visibili, vanno dal rosso al violetto nel seguente ordine: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, blu e violetto.
Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto già si sa fin dalle scuole medie. Quello che invece a noi subacquei interessa sapere è che l’acqua, come molte altre sostanze, assorbe parte della luce che la attraversa. Questo assorbimento non è omogeneo ma avviene in modo differente, in funzione della massa d’acqua attraversata dalla luce, per i vari colori. Il fenomeno è conosciuto, appunto perché avviene in modo “selettivo sui vari colori”, con il termine di “assorbimento selettivo”.
I colori, come è sempre accennato in tutti i manuali dei primi corsi d’immersione, sono pertanto fermati alle varie profondità a partire dal rosso. È questo il primo colore ad essere ostacolato dall’acqua e solitamente sparisce già dopo i primi 5 m. Aumentando la lunghezza del percorso che la luce compie, anche altri colori poi spariscono via via. L’arancione potrà arrivare fino a circa 15 m; il giallo fino ai 30 m e il verde fino anche a 60 m. Da quella profondità in poi, il paesaggio sottomarino sarà solo caratterizzato dal colore blu.
Chi ha già qualche immersione alle spalle ma non si è ancora cimentato con la fotografia può obiettare a quanto affermato fin qui dicendo «Ma io mi ricordo che in quella immersione percepivo tutti i colori senza problemi anche a 20 o 30 m; perché?»
L’effetto è presto spiegato: gli strumenti ottici in questione, gli occhi, sono abbinati a un processore grafico di elaborazione dell’immagine; il cervello. È per colpa, o forse per merito, del cervello che abbiamo la sensazione di vedere i colori in modo molto distinto anche sott’acqua avvertendo in modo molto minore della realtà l’effetto dell’assorbimento selettivo. Il cervello, infatti, tende ad adattarsi alla diversa situazione di luce e, per dirla con linguaggio della fotocamera digitale, esegue un bilanciamento del bianco automatico.
Nella fotocamera digitale si vedono spesso i controlli per il “bilanciamento del bianco” ossia per consentire alla fotocamera di interpretare i colori nel modo adeguato eliminando le dominanti cromatiche dovute alla luce che, anziché bianca, può essere colorata.
Per capire meglio cosa succede, immaginiamo di fotografare una persona il cui volto riceve luce riflessa dai muri di una casa. Il colore del viso apparirà di un colore diverso da quello reale proprio perché la luce riflessa assume un colore in funzione del colore della casa. Il bilanciamento del bianco elimina questo spiacevole effetto restituendo dei colori più naturali; cosa questa che non può avvenire utilizzando invece la pellicola. Il vantaggio, rispetto alla fotografia tradizionale, della fotografia digitale consiste appunto nel potere correggere automaticamente i colori e ridare loro un aspetto più simile a quello reale.
A questo punto parrebbe che la fotografia digitale risolva tutti i problemi; in realtà esistono dei limiti oltre i quali non ci si può spingere: la fotocamera può ridurre l’intensità di una componente cromatica, per esempio il blu, se questa predomina sulle altre ma certamente non può creare il rosso laddove questo è totalmente assente.
Questo primo problema può essere parzialmente risolto mediante l’uso del flash. La sua luce bianca consente di ridare vita anche ai colori più spenti, ma solo a una certa distanza.
Quanto avviene con la luce del sole, avviene anche con la luce del flash. Dicendo in precedenza che i colori sono assorbiti in funzione della quantità d’acqua attraversata dalla luce, si intendeva dire che non importa da quale direzione la luce proviene; ciò che conta è la distanza che la luce percorre sott’acqua.
Nella foto si nota che i pesci in primo piano appaiono con il giallo della loro coda molto evidente. Osservando i pesci a maggiore distanza, ossia quelli nella parte superiore della foto, si nota che i colori sono spariti.
La ragione è semplice: supponiamo di essere a 10 m di profondità e di fotografare un soggetto a 5 m di distanza. La luce, per raggiungere l’obiettivo, dovrà attraversare la massa d’acqua che separa la superficie dal soggetto (10 m) e poi, riflettendosi su questo, deve viaggiare fino a raggiungere l’obiettivo (altri 5 m) compiendo così un tragitto che non corrisponde alla semplice misura della profondità.
Nell’esempio appena fatto si ottengono colori identici a fotografare da distanza ridottissima il medesimo pesce a 15 m di profondità. Nell’uso del flash, ovviamente, si otterranno i migliori risultati lavorando con soggetti posti a distanze particolarmente ridotte.
Assorbimento e diffusione
Sono questi altri spiacevoli fenomeni legati all’acqua. L’assorbimento si riferisce alla trasformazione della luce che, come si sa, è costituita da onde elettromagnetiche in calore. Un semplice paragone rende facile comprendere cosa avviene. Immaginiamo che invece che l’acqua si abbia un vetro: se da un lato del vetro si ha il sole, dall’altro lato si vede la luce del sole; molto semplice fin qui. Ora invece prendiamo in esame un vetro nero: la luce del sole non passa. Ma cosa capita al vetro? Ne più ne meno quello che capita a un oggetto scuro lasciato al sole; la luce viene assorbita e l’oggetto si scalda. Se la luce viene quindi trasformata in qualcos’altro, ossia l’energia termica, addio luce. L’assorbimento è un fenomeno che, in funzione della distanza coperta dalla luce nell’acqua, comporta una diminuzione della quantità di luce. In parole povere… più si scende e più è buio. Per fortuna dei subacquei, c’è ancora una buona visibilità alle profondità a cui l’uomo si può spingere. Va tenuto presente però che, in assenza di una sorgente luminosa, il flash, ci sarà meno luce a disposizione per la fotocamera così che si avranno tempi di posa sempre più lunghi all’aumentare della profondità. Un altro fenomeno che occorre tenere presente è dovuto alla presenza nell’acqua di materiali in sospensione.
Micro organismi, quali il plancton, sono sempre presenti. In aree tropicali il periodo della riproduzione dei coralli è caratterizzato da grandi presenze di uova disperse nell’acqua, ma la vera “regina della nebbia” è la sabbia.
Sia essa sollevata dal fondale a causa del mare grosso o portata per esempio da fiumi, la sabbia più di ogni altra cosa è capace di fare apparire un panorama subacqueo come se fosse avvolto dalla nebbia. La luce, colpendo i materiali in sospensione, viene infatti riflessa in ogni direzione così che tutto appaia sfocato e privo di dettagli come la cernia che qualche occhio attento riesce a individuare al centro esatto della fotografia precedente. Questo fenomeno, evidente in situazioni limite come quella della foto, è però presente sempre dato che nell’acqua la presenza di elementi in sospensione è un fattore comune.
Visto che la diffusione, anche nelle migliori condizioni climatiche, è un fenomeno che riduce i dettagli e la nitidezza dei soggetti lontani, risulta evidente che per ovviare si ha una soluzione unica: lavorare a distanza molto ridotta fotografando così i soggetti stando loro vicini.
Ora è chiaro, che un subacqueo che adotta un sistema più silenzioso ha maggiori opportunità di scattare fotografie d’effetto potendosi avvicinare maggiormente ai soggetti.
Resta però un fatto importante: con le normali custodie, tutti gli obiettivi aumentano la loro lunghezza focale riducendo così l’angolo di ripresa e costringendo, per fare stare tutto il soggetto in un fotogramma, a riprendere da distanze maggiori rispetto a quanto si farebbe sulla terra.
L’acqua e la rifrazione della luce
Nel seguire un primo corso di immersioni si impara che gli oggetti sott’acqua appaiono più grandi di circa 1/3 rispetto a come apparirebbero se osservati sulla terra ferma.
Ciò ha effetto anche sugli obiettivi? Quali sono le cause di questo effetto? Quali le conseguenze per il fotografo subacqueo?
Ecco le domande che solitamente ci si pone sentendo questa affermazione se si è anche fotografi subacquei.
Alla base di questo fenomeno c’è il principio della rifrazione.
Per descrivere in modo molto semplice, quando un raggio di luce colpisce la superficie dell’acqua perpendicolarmente, esso penetra la superficie senza problemi. Se il raggio è invece inclinato una parte della luce viene riflessa dalla superficie dell’acqua e solo una parte penetra verso il fondo. In funzione dell’angolo con cui la luce colpisce la superficie, in questo
caso dell’acqua, si avrà una maggiore o minore parte di luce che giunge sul fondo. Ciò, non verificandosi quando i raggi di luce sono perpendicolari alla superficie, spiega perché quando il sole è alto nel cielo sulla verticale che si ha la massima quantità di luce in profondità.
Va poi notato che i raggi di luce che giungono sulla superficie dell’acqua non verticalmente, subiscono una deviazione. Infatti, a causa della minore velocità della luce nell’acqua, tendono a cambiare direzione avvicinandosi alla retta perpendicolare alla superficie che passa per il punto in cui i raggi colpiscono la superficie. La deviazione determina di conseguenza il ben noto fenomeno della matita che, se parzialmente immersa in un bicchiere pieno d’acqua, appare spezzata.
Se i raggi luminosi che passano dall’aria all’acqua vengono deviati e la loro direzione diventa più vicina alla perpendicolare, al contrario, passando dall’aria all’acqua si ha uno scostamento dalla perpendicolare. Nella figura 7 si può vedere cosa accade a causa di questo fenomeno quando un oggetto è osservato stando sulla terra ferma (1). In questo caso i raggi luminosi non sono deviati e viaggiano indisturbati procedendo lungo linee rette.
Se invece si osserva l’esempio 2, in cui il pesce è nell’acqua mentre gli occhi del sub, che immaginiamo protetti dalla maschera – sono circondati da aria, si nota che avviene esattamente quanto prima indicato per la luce del sole. I raggi luminosi che passano dall’acqua all’aria tendono a spostarsi allontanandosi dalla perpendicolare che passa per il punto in cui i raggi colpiscono la superficie. Essendo raffigurati due ipotetici raggi luminosi, si notano le due rispettive perpendicolari ossia le due linee tratteggiate orizzontali. Facendo il raffronto tra l’esempio 1 e 2 si nota che l’angolo di ripresa, per dirlo in termini fotografici, varia. Nell’esempio 2 si ha un angolo di ripresa minore e il pesce occupa una parte più ampia dell’area normalmente visibile. Il risultato è poi raffigurato negli esempi 3 e 4. In questi si nota che, affinché il pesce occupi la medesima porzione del campo visivo, dovrà essere o più vicino, esempio 3, di circa 1/4 oppure, come nell’esempio 4, più grande di circa 1/3.
È forse per questo motivo che i pescatori narrano spesso di catture di pesci dalle dimensioni eccezionali?
Scherzi a parte, l’effetto è decisamente molto influente sulla visione dell’uomo quando si immerge e si comprende, su una base scientifica, il motivo di quanto affermato all’inizio di questo paragrafo ossia che gli oggetti sott’acqua appaiono più grandi di circa 1/3 rispetto a quanto sono nella realtà.
Nota
La deviazione subita dai raggi luminosi quando dall’aria passano verso l’acqua è calcolata mediante la proporzione tra la velocità della luce nell’aria (poco meno di 300 000 km/sec) e nell’acqua (circa 275 000 km/sec) e corrisponde a 1,33.
Si è detto che gli oggetti appaiono più vicini; per determinare la distanza a cui appaiono (detta distanza apparente) conoscendo quella reale (per es. 4 m), si divide il valore di questa per l’indice di rifrazione (ossia 1,33). Esempio: 4 : 1,33 = 3 m
I soggetti appaiono più vicini e più grandi. Conoscendo l’indice di rifrazione è possibile calcolare la dimensione di un pesce di cui si stima la misura in base a ciò che si vede. Immaginando di vedere una cernia e stimandone la lunghezza in 60 cm sarà sufficiente dividere questo valore per 1,33. Esempio: 60 : 1,33 = 45 cm
Un metodo di calcolo più semplice utilizzabile in queste circostanze consiste nel ridurre di 1/4 le dimensioni stimate.
L’influenza della rifrazione in fotografia
È evidente che, essendo gli obiettivi molto simili agli occhi umani, l’influenza della rifrazione è avvertita anche in fotografia.
Tutto, parlando di vista umana, appare più vicino o più grande quando sott’acqua e allo stesso modo accade anche per la fotocamera sia essa digitale che tradizionale. In questo caso, le fotocamere più svantaggiate, anche se è possibile attuare delle contromisure, sono le reflex digitali. Per ora è comunque meglio concentrarsi solo su quanto applicabile in tutte le circostanze e con tutte le fotocamere. Come si vede nella parte 1 della figura 8, quando la fotocamera è utilizzata in ambiente terrestre ha una angolo di ripresa caratteristico e questo non subisce alcuna variazione. L’angolo è quello determinato dalla lunghezza focale dell’obiettivo. Obiettivi con una lunghezza focale ridotta hanno un angolo di ripresa molto ampio e sono adatti a riprendere, per esempio, panorami. Obiettivi con angolo di ripresa molto ampio sono i teleobiettivi e sono adatti soprattutto a riprese a distanza.
Detto ciò, la prima deduzione logica è che per la foto subacquea sono da preferire obiettivi grandangolari così da potere stare piuttosto vicini al soggetto evitando i problemi dovuti alla diffusione e all’assorbimento selettivo della luce.
Tornando a esaminare la figura 8, nella sezione 2 si vede la custodia subacquea con il vetro nella parte frontale. Immaginiamo di fare partire due raggi di luce con le medesime inclinazioni dell’angolo di ripresa dell’obiettivo. Come già detto, la luce incontrando l’acqua “piega” avvicinandosi alla perpendicolare del piano che separa l’acqua dall’aria ossia, nel caso della custodia, in corrispondenza del vetro.
Questo comportamento avverrà anche fotografando, vedi sezione 3, e si avrà come risultato un angolo di ripresa inferiore.
Ecco che l’angolo di ripresa, diminuendo, trasforma il comportamento dell’obiettivo rendendolo più simile a quello di un teleobiettivo.
L’obiettivo riprenderà quindi, così come gli occhi, oggetti che appariranno più grandi e più vicini. Per avere un’idea precisa degli effetti è necessario ricorrere ancora al valore dell’indice di rifrazione dell’acqua ossia il famoso valore di 1,33. È sufficiente moltiplicare il valore della lunghezza focale della fotocamera per 1,33 e ottenere così la lunghezza focale equivalente in acqua. Il tradizionale obiettivo da 50 mm, quello che simula meglio degli altri la visione umana, diventa così pari a 50 x 1,33 = 66,5 mm.
Nota
Moltiplicando la lunghezza focale di un obiettivo per l’indice di rifrazione dell’acqua (1,33) si ottiene la lunghezza focale equivalente in acqua. Se si desidera in acqua una specifica lunghezza focale (es. 50 mm) occorre avere sulla fotocamera un obiettivo dalla lunghezza focale pari a quella desiderata diviso l’indice di rifrazione. Esempio: 50:1,33 = 37,5 mm
Lunghezze focali e fotocamere digitali
Le lunghezze focali e sensori delle fotocamere digitali sono due elementi che apparentemente non hanno attinenza ma, in realtà, variano entrambi l’angolo di ripresa.
Supponiamo di prendere in esame un obiettivo avente una lunghezza focale pari a 15 mm. Se lo si utilizza su una fotocamera tradizionale a pellicola si avrà, come si nota nella parte superiore della
figura 9, un angolo di ripresa pari a 100°. Se invece lo si utilizza con un sensore più piccolo, per esempio da 4/3” viene inquadrata solo una porzione di quanto invece appare sul negativo da 24 x 36 mm. Addirittura, se si usa il medesimo sensore su una fotocamera con sensore da 1/2” l’angolo di ripresa si riduce a 25°.
Se avessimo voluto ottenere identici angoli di ripresa con una fotocamera da 24 x 36 mm avremmo dovuto, come si vede nella parte inferiore della medesima figura, usare obiettivi con un lunghezza focale differente e rispettivamente pari a 30 e 75 mm.
Questa equivalenza serve per conoscere, nella fotografia digitale, la lunghezza focale equivalente. Da anni i fotografi sono infatti abituati a distinguere teleobiettivi da grandangolari in base a questo valore e non in base all’angolo di ripresa ottenuto da quell’obiettivo.
Se l’obiettivo da 15 mm è quindi abbinato a un sensore da 4/3” offre un angolo di ripresa pari a quello di un obiettivo da 30 mm abbinato alla pellicola da 24 x 36 mm.
La sua lunghezza focale equivalente è quindi pari a 30 mm. Se invece si abbina il medesimo obiettivo a un sensore ancora più piccolo, come uno da 1/2”, la lunghezza focale equivalente diventa 75 mm.
Se ancora non fosse sufficientemente chiara la differenza di angolo di ripresa al variare del sensore, basta pensare a cosa fa un teleobiettivo rispetto a un grandangolare: inquadra una porzione d’immagine più piccola. Un sensore di dimensioni minori fa esattamente la stessa cosa.
È chiaro, esaminando la figura 10, come sia notevolmente diversa l’area inquadrata in funzione della misura del sensore. Per questo motivo le fotocamere compatte, e tutte quelle a ottica fissa, riportano generalmente due indicazioni: la lunghezza focale reale e quella equivalente nelle foto con pellicola 24 x 36 mm. Lo si nota, per esempio, consultando le schede tecniche. Guardando, per esempio, quella della Olympus C8080 si legge: “Obiettivo zoom Olympus da 7,1mm-35,6mm f2,4-f3,5, 14 elementi in 5 gruppi (equivalente a un 28 – 140 mm in una fotocamera 35 mm)” così da farsi immediatamente una idea delle caratteristiche dell’obiettivo sulla base delle fotocamere con pellicola 24 x 36 mm anche detto “formato 135” o “formato 35 mm”.
Nelle fotocamere a ottica intercambiabile non è possibile indicare l’equivalenza di tutte le lunghezze focali possibili per cui si adotta un metodo differente: si indica il fattore di conversione. Questo è un numero che consente di ottenere, moltiplicando la lunghezza focale dell’obiettivo per questo numero, il valore della lunghezza focale equivalente.
Per fare un esempio, nella Canon Eos 300D il valore è pari a 1,6. Un obiettivo da 50 mm utilizzato con questa fotocamera corrisponde a un 80 mm. Quando si calcolerà la lunghezza focale sott’acqua, si dovrà tenere conto anche di questo fattore.
Lunghezze focali nella foto subacquea digitale
Abbiamo detto che nella foto subacquea le lunghezze focali, a causa dell’indice di rifrazione dell’acqua, vanno moltiplicate per 1,33. Abbiamo detto anche che nella fotografia digitale va considerato il fattore di conversione. Ma nella foto subacquea digitale come ci si comporta? I due effetti si sommano; occorre pertanto conoscere la lunghezza focale equivalente e moltiplicare quel valore per l’indice di rifrazione dell’acqua ossia 1,33.
Ecco quindi che se volessimo acquistare una Canon Eos 300D, considerando che essa può montare anche i comuni obiettivi delle Canon EOS a pellicola, volendo utilizzare un obiettivo da 50 mm ci ritroveremmo alla fine con un 105 mm (per la precisione 106,4). Sarebbe un obiettivo decisamente inadatto. Negli esempi visibili in figura 11, si vede come sommando i due fattori si ottengano risultati inadeguati alle esigenze subacquee; per ottenere una giusta inquadratura occorrerebbe allontanarsi parecchio dai soggetti con tutte le conseguenze che ben conosciamo.
In questo caso, volendo avere sott’acqua un obiettivo corrispondente a un 50 mm, per sapere quale obiettivo sarà necessario acquistare occorre effettuare un calcolo inverso ossia dividere la focale effettiva in acqua per l’indice di rifrazione dell’acqua (1,33) e poi per il fattore di conversione di quella specifica fotocamera (1,6). Il valore risultante indica che sarà necessario acquistare un obiettivo da 24 mm; se lo usassimo con una fotocamera a pellicola formato 35 mm sarebbe un grandangolare spinto; nell’uso subacqueo sarà invece un obiettivo medio ma adattissimo alla maggior parte delle situazioni.
Questo problema è generalmente sentito nelle fotocamere reflex che montano anche obiettivi tradizionali tipici di altri modelli simili ma a pellicola. L’esigenza di avere anche sott’acqua dei grandangolari spinti, soprattutto per il professionista esigente, si traduce in costi molto elevati.
Nota
Il problema è meno influente quando si utilizzano le fotocamere compatte dato che queste hanno già tendenzialmente obiettivi zoom con una lunghezza focale minima, se comparata alle fotocamere a pellicola, abbastanza ridotta e generalmente compresa tra 24 e 35 mm. La lunghezza focale nell’uso subacqueo sarebbe decisamente accettabile e più che adeguata alle esigenze amatoriali.
La riduzione dei costi è solo una delle esigenze di chi vuole dei grandangolari molto spinti; vi sono infatti esigenze normalmente non soddisfabili a causa dei limiti tecnici a meno di evitare il problema dato dall’indice di rifrazione dell’acqua.
L’oblò sferico
Anche detto “oblò correttore” rappresenta la soluzione più semplice, efficace ed elegante alla riduzione dell’angolo di ripresa. Se la luce passa perpendicolarmente alla superficie, il gioco è fatto!
Abbiamo infatti visto che quando i raggi di luce colpiscono una superficie perpendicolarmente non vengono deviati, inoltre, solo una parte trascurabile di luce viene riflessa a tutto vantaggio quindi della resa finale dell’immagine. Passando una maggiore quantità di luce, ossia venendone riflessa una parte nettamente inferiore rispetto a quando si utilizza un comune vetro piatto, la fotocamera percepisce una maggiore differenza di luminosità tra zone illuminate e zone in ombra; questa differenza corrisponde al contrasto. Una immagine contrastata è sicuramente più ricca e satura di colori rispetto a una piatta e grigiastra e di conseguenza è una immagine di maggiore impatto. La differente resa di un obiettivo montato dietro a un vetro piano o dietro a un oblò è tanto più evidente quanto più ampio l’angolo di ripresa dell’obiettivo.
Parlando di focale equivalente alla fotografia tradizionale, grandangolari spinti, come un 20 mm, per esempio, a causa dell’ampio angolo di ripresa è notevole il vantaggio dell’uso con un oblò correttore.
Obiettivi con focale maggiore, come per esempio un 35 mm, hanno un angolo di ripresa tale per cui i difetti dati dalla rifrazione rientrano entro limiti accettabili e non richiedono necessariamente di essere abbinati a un oblò correttore. Il costo di questo accessorio, se raffrontato a un guadagno qualitativo minimo, non ne giustifica infatti l’impiego.
L’oblò è sempre di grande beneficio anche se solo in abbinamento a grandangolari spinti si nota maggiormente il miglioramento qualitativo. Occorre anche dire che a ogni obiettivo corrisponde, almeno in linea teorica, un ben preciso tipo di oblò. La sua curvatura deve essere adatta alla lunghezza focale dell’obiettivo e il centro della sfera di cui l’oblò fa parte deve coincidere perfettamente con il cento ottico dell’obiettivo che non è necessariamente in corrispondenza della lente più esterna.
È quindi necessario, almeno in linea teorica, un oblò diverso per ogni singola lunghezza focale; con le tradizionali ottiche zoom che consentono di avere più lunghezze focali nel medesimo obiettivo sarebbero necessari quindi più oblò diversi. Questo è vero, ma soprattutto in linea teorica. Nella pratica si utilizza il medesimo oblò per per più obiettivi di diversa lunghezza focale. Solo se si ha necessità di un uso professionale, ad altissimo livello, ci si impegna economicamente nell’acquistare un oblò diverso per ciascun obiettivo del corredo.
Qualche consiglio circa l’oblò
Si trovano sul mercato oblò in cristallo oppure in cristallo acrilico, plexiglass dalle particolari caratteristiche ottiche, e vi sono pro e contro per ciascuno dei due. Quelli in cristallo, che chiameremo “in vetro” per distinguerli meglio da quelli in cristallo acrilico, sono generalmente più robusti data la durezza del materiale.
Le caratteristiche ottiche dei due materiali sono comunque ottime ma vi sono delle differenze non solo a livello economico ma anche a livello pratico. Se gli oblò in vetro sono più resistenti, la diversa densità tra vetro e acqua rende eventuali graffi più evidenti che con gli oblò in materiali plastici.
Questi materiali, infatti, grazie a una densità simile a quella dell’acqua, quindi a un comportamento ottico simile, riesce a mascherare quei piccoli graffi che con l’uso possono prodursi sulla superficie esterna. Va considerato che l’oblò in materiali plastici, data la più semplice lavorabilità, è in genere più economico di quelli in vetro.
Certamente l’uso di un oblò, al pari di quello di qualsiasi obiettivo usato normalmente nelle macchine fotografiche, richiede sempre una certa cautela per evitare graffi; la foto subacquea espone però maggiormente a questi rischi. È facile, soprattutto quando si fanno delle macro e si ha poca esperienza, avvicinarsi troppo al soggetto per riprenderlo a dimensione massima… per poi accorgersi che ci si è appoggiati sopra un corallo!
Restando in tema di graffi, può accadere che qualche goccia d’acqua lasci residui di sale o di calcare sulla superficie dell’oblò. Non cerchiamo di eliminarla; non serve. È sufficiente, una volta in immersione, passare delicatamente un dito sopra il segno di calcare per eliminarlo mentre invece il residuo salino si scioglie da solo senza bisogno di interventi.
Ricordiamoci che se restano residui di sale, significa che a fine immersione la custodia non è stata sciacquata a dovere.
Se fossimo dei maniaci e desiderassimo eliminare tracce di calcare lasciate una eventuale gocciolina, è meglio affidarsi ai cari vecchi sistemi, tanto semplice quanto efficaci: alcune gocce di succo di limone in corrispondenza delle tracce di calcare. L’acidità del succo di limone potrà rimuovere le tracce di calcare senza intaccare le superfici dell’oblò.
Questa è comunque una operazione pressoché inutile: dopo il procedimento si risciacquerebbe la parte trattata (se si è così maniaci significa che non si asciugherebbe l’oblò passandoci un panno sopra) ma la medesima acqua potrebbe lasciare nuove tracce.
Autore: Enzo Borri – Tratto da: Fotografia subaquea per turisti digitali – Edizioni FAG Milano