Dopo un primo articolo sull’acqua e la luce, Come fare a… vi propone un nuovo articolo dove affronteremo l’argomento del fuoco immersi nell’acqua, infatti anche sott’acqua si parla di fuoco ma non inteso come fiamma bensì come concetto fotografico. In questo articolo scopriremo cosa succede quando si devono mettere a fuoco dei soggetti in acqua.
Fuoco e acqua
Non è indispensabile essere dei professionisti per sapere che in fotografia il soggetto principale deve risultare nitido e a fuoco.
Se molti sanno che solitamente si hanno a fuoco principalmente i soggetti alla distanza impostata, solo chi ha una infarinatura fotografica conosce il principio della “profondità di campo”. Per spiegare in breve il concetto, si può dire che mettendo a fuoco i soggetti a una specifica distanza, per esempio 2 m, anche soggetti a distanze leggermente inferiori o leggermente superiori risulteranno a fuoco. L’ampiezza determinata tra la distanza minima e quella massima a cui i soggetti risultano a fuoco si chiama “profondità di campo”.
Comprenderne il principio aiuta a capire perché nella fotografia subacquea con le fotocamere digitali si è particolarmente avvantaggiati rispetto all’uso delle fotocamere tradizionali. Alla base vi è un fattore importante: la ridotta lunghezza focale dell’obiettivo delle fotocamere digitali.
Potremmo anche fermarci qui e dire semplicemente che le ottiche grandangolari hanno una profondità di campo più estesa rispetto a un teleobiettivo. Comprendere però i meccanismi della profondità di campo aiuta a capire le ragioni e ad applicare queste conoscenze anche al momento della scelta di una fotocamera digitale.
Per capire tutto il procedimento che determina la profondità di campo bisogna definire con precisione il termine: la profondità di campo è la differenza tra distanza massima e minima a cui i soggetti risultano nitidi per l’occhio umano. L’ultima parte di questa frase, quella riferita all’occhio umano, aiuta a introdurre un discorso legato alla percezione. L’occhio umano ha una sua risoluzione, proprio come i sensori delle fotocamere digitali, in funzione della quantità di elementi sensibili che il nostro occhio contiene. Fossimo dei rapaci, la cui vista è molto più nitida della nostra, riusciremmo a vedere anche i minimi difetti di qualsiasi fotografia. Avendo il nostro occhio dei limiti, non riusciamo a notare le sfocature più piccole che alcuni oggetti non propriamente a fuoco possono mostrare. Ecco che fintanto che le dimensioni della sfocatura sono contenute, non ci sembra vi siano differenze tra un oggetto perfettamente a fuoco e uno leggermente sfocato. Cerchiamo ora di capire meglio come questo effetto influenzi la fotografia digitale. Nella figura seguente si nota che tutti i raggi luminosi che cadono sull’obiettivo, semplificato e raffigurato come una lente, vengono da questo convogliati verso il sensore.
Ma perché questo avviene? Basta ripensare a quanto visto nell’articolo precedente “L’acqua e la luce“, parlando di rifrazione. I raggi luminosi, come si vede nella figura 3 successiva, entrano nella lente e, per via della differente densità della lente rispetto all’aria, tendono ad avvicinarsi all’asse perpendicolare al punto in cui il raggio luminoso colpisce la lente. Il raggio luminoso incontra poi un altro piano, la parete della lente verso il sensore. In questo caso, poiché incontra l’aria che è meno densa del vetro della lente, tende ad allontanarsi dall’asse perpendicolare al punto di incontro del raggio con la lente e, di conseguenza, tende assieme agli altri raggi luminosi a convergere in un unico punto. Essendo partiti in origine da un punto, e il punto è per definizione privo di dimensioni, e arrivando a concentrare in un altro punto tutti i raggi luminosi che da esso partono, si ha una immagine a fuoco.
Ma cosa accade quando si hanno oggetti a distanza diversa rispetto a quella del pesciolino nella posizione “A”? Succede che i raggi luminosi colpiscono la parete anteriore della lente con inclinazioni differenti rispetto a prima. Ciò è evidente analizzando le linee tratteggiate che partono dal pesce (B) più vicino alla lente. Il diverso percorso dei raggi luminosi fa in modo che il punto su cui convergono sia differente rispetto al precedente. Questo spiega, anche se non è al momento attinente con quanto stiamo esaminando, perché si ha necessità di effettuare regolazioni di messa a fuoco; sebbene questa operazione, nella maggior parte delle fotocamere digitali, sia svolta dalla fotocamera stessa, ciò non toglie che sia una regolazione che va fatta.
Tornando al discorso della profondità di campo e al fatto che sfocature minime sono impercettibili, è già abbastanza chiaro che nell’esempio della figura 3 il punto “A” appaia come un punto mentre il punto “B” sarà solo un cerchio di dimensioni molto elevate e scarsamente definito (ossia molto sfocato). Se questo avviene per un punto qualsiasi dell’immagine, avviene anche per tutti gli altri relativi al medesimo soggetto e, di conseguenza, si ha l’immagine del soggetto in “A” perfettamente nitida e a fuoco mentre quella del soggetto nel punto “B”, costituita da un insieme di punti confusi sarà sfocata.
Chi osserva la figura 4 con attenzione capisce che le distanze dei due pesciolini rispetto all’obiettivo sono notevolmente differenti. Questo causa la elevata sfocatura. Ma se le distanze fossero differenti solo di poco? Come è possibile notare nella figura 5, la differenza tra le distanze è tale che un singolo punto del soggetto originale sarà nitido e a fuoco per il soggetto in “A” e lievemente sfocato per il soggetto in “B”. Ciò è dovuto alla differenza minima tra le inclinazioni dei relativi raggi luminosi in uscita dalla lente ossia il nostro obiettivo. Esaminando questo effetto in abbinamento a un sensore, si comprende meglio il tutto.
Ma se la nitidezza deriva dal fatto che i raggi luminosi in entrambi i casi giungono con inclinazioni simili, si può logicamente arrivare a pensare “Come posso variare l’inclinazione dei raggi luminosi ossia sfruttare solo quelli più perpendicolari al sensore e ottenere una maggiore nitidezza a più soggetti a distanza diversa?”. La risposta sta in una sola, semplice operazione: chiudere maggiormente il diaframma.
Quando il diaframma è adeguatamente chiuso transitano attraverso di esso solo alcuni raggi luminosi; sono quelli che giungono verso il sensore con maggiore perpendicolarità e che quindi mostrano la sfocatura in modo meno accentuato essendo essi distribuiti su una superficie ridotta (come si nota nella figura 6). Anche se non creano una immagine perfettamente nitida, l’entità della sfocatura non è così percettibile come invece nei precedenti casi.
Questo è il discorso che normalmente viene affrontato per la pellicola; la dimensione minima accettabile per la sfocatura, che in fotografia è detta “cerchio di confusione”, affinché sia impercettibile dipende sia dall’ingrandimento che, ovviamente, dalla capacità della pellicola di restituire con fedeltà i dettagli ossia dalla sua “grana”.
Nel digitale, considerando che ogni singolo elemento del sensore produce come risultato un singolo dato sia che su esso cada una immagine molto nitida oppure lievemente sfocata, ecco che ciò che giungerà sul sensore con una sfocatura di dimensione inferiore a quella di un suo elemento sensibile, apparirà nella foto finale come fosse a fuoco.
Se così è chiara l’influenza del diaframma e risulta chiaro come chiudendolo si possano avere immagini più nitide, meno evidente risulta l’influenza della lunghezza focale. Occorre pensare che Il diaframma è indicato dal rapporto tra la lunghezza focale e il diametro dell’apertura creata dalle lamelle.
Raccogliendo tutte le informazioni, con un minimo ragionamento logico si giunge alla conclusione: l’apertura del diaframma, ossia il suo diametro, determina la maggiore possibilità di mettere a fuoco soggetti a distanza diversa; il diametro dell’apertura del diaframma è pari alla lunghezza focale divisa il valore del diaframma (un obiettivo da 200 mm a f/4 a un diaframma con foro avente ø= 200/4= 50 mm). Dal calcolo precedente risulta immediato che un obiettivo con lunghezza focale ridotta, quali gli obiettivi usati nella fotografia subacquea, hanno un diaframma che a pari valore, ossia sempre a f/4 se si pensa all’esempio, ha una dimensione minore. Se ciò, detto senza fare un riferimento numerico preciso appare poco chiaro, riportando il discorso al mondo reale appare tutto più semplice: se invece dell’obiettivo da 200 mm prendiamo in esame un grandangolare da 20 mm è ovvio che a f/4 il diametro dell’apertura sarà pari a 20/4= 5 mm; una apertura molto più piccola rispetto ai 50 mm dell’esempio precedente.
Questa è solo una descrizione molto semplificata di quanto all’origine nei grandangolari della maggiore profondità di campo ma forse è la parte più semplice; ciò che a noi fotografi subacquei maggiormente interessa è come sfruttare, o come ovviare, al “tutto è a fuoco”.
Ciò che appare un vantaggio a livello tecnico, a livello creativo è invece un limite. Spesso è infatti preferibile avere il soggetto principale, per esempio un bellissimo pesce, nitido e a fuoco ma con lo sfondo, per esempio una gorgonia, più sfocato così da dare maggiore risalto al soggetto primario. Ciò che nella foto terrestre è un gioco da ragazzi, basta lavorare con un diaframma molto aperto e regolare opportunamente la messa a fuoco, nella foto digitale subacquea è più difficile.
Come si nota però nella foto visibile in figura 8, in acqua esistono fattori che aiutano a ottenere uno sfondo più sfocato di quanto si possa immaginare in teoria: la diffusione della luce causata dalle particelle in sospensione sfoca le gorgonie sullo sfondo dando una idea della distanza seppur consentendo di distinguerne le sagome. La composizione non è perfetta per colpa della luce che giunge in modo insufficiente sul pesce leone (Pterois volitans) mollemente adagiato sulla gorgonia al centro.
In questo caso si tratta di una situazione comunque fortunata; non sempre si può avere un soggetto di sfondo alla giusta distanza in modo da riempire armonicamente la composizione con qualcosa che non distrae dal soggetto principale. In altri casi ci si trova a dovere fare delle scelte per giocare con le profondità, stavolta intese come distanze.
Quando si desidera un effetto sfocato per un soggetto vicino o lontano ciò che più conta è di quanto questo soggetto, rispetto agli altri, sia più vicino o più lontano. Se il soggetto principale è, per esempio, a 80 cm da noi e quello più vicino sta a 15 cm è ovvio che vi sia un grande divario tra le distanze e che sarà più semplice sfocare il soggetto più vicino che non se fosse, per esempio, a 60 cm data la minima differenza tra le distanze. Osservando le illustrazioni sulla profondità di campo a inizio di questo articolo ciò è più chiaro.
Un trucco che possiamo usare, con pressoché qualsiasi fotocamera digitale, consiste nello spostare l’area a fuoco allontanandola da ciò che si vuole appaia sfocato. Nella foto visibile in figura 9 si voleva sfocare sia la gorgonia sulla sinistra che i pesciolini arancioni, Anthias, della famiglia delle castagnole, mantenendo però a fuoco sia il pesce al centro che la gorgonia su cui è appoggiato e quella sullo sfondo. Il trucco adottato è consistito nel mettere a fuoco un oggetto a distanza diversa da quello principale. Mettendo a fuoco la gorgonia sullo sfondo, il pesce leone al centro era compreso nella parte a fuoco ma non la gorgonia e i pesciolini più vicini.
La tecnica del blocco della messa a fuoco è quella che consente questi risultati. Premendo a metà corsa il pulsante di scatto, la fotocamera mette a fuoco i soggetti che inquadra. Puntandola verso un soggetto a distanza diversa da quello principale si ottiene quanto illustrato nella figura 10. Il punto di messa a fuoco viene spostato. Sempre tenendo premuto il pulsante a metà corsa, si provvederà a inquadrare la scena zone desiderato ma con una diversa disposizione delle aree a fuoco.
Riferendoci alla figura 10, se si mette a fuoco il pesce “P2” anche quello chiamato “P1” risulta a fuoco; usando il blocco della messa a fuoco e usando come riferimento il pesce “P3” ecco invece che si sposta la zona a fuoco allontanandola.
Dobbiamo anche ricordarci che le aree a fuoco sono sempre divise per un terzo davanti al soggetto primario e per due terzi dietro a esso ( ma questo è valido quando non si lavora a distanze elevate ossia quando il punto più lontano non è verso l’infinito). Ciò spiega perché sia più semplice sfocare i soggetti più vicini che quelli più lontani rispetto a quello principale.
Autore: Enzo Borri – Tratto da: Fotografia subaquea per turisti digitali – Edizioni FAG Milano